Qualche sera fa mi sono ritrovato a cena con dei vecchi compagni di liceo e tra questi c’era Paolo, detto il “Pesce”, che da dodici anni vive a Monaco di Baviera ed è consulente per spettacoli teatrali. Ho sempre saputo della sua passione per la musica – ha avuto anche un discreto successo nazionale con un gruppo musicale di amici – e, in seguito, ero venuto a sapere che, in Germania, aveva aperto uno studio dove svolgeva una professione che aveva a che fare sia con la consulenza sia con il suono.
È stato solo in occasione del nostro ultimo incontro, però, che mi ha raccontato come, in Germania, per svolgere il suo mestiere vi sia perfino una laurea. Dopo qualche scambio di domande e risposte mi è stato ben chiaro che il suo lavoro non è quello di tecnico del suono, come ce ne sono anche da noi, ma consiste nello svolgere un altro ruolo tanto preciso quanto importante: fungere da anello di congiunzione tra la parte artistica (regia, scenografia, attori) e la parte tecnica (tecnici del suono, logistica, impiantistica).
Essendo io stesso un consulente ci siamo trovati sulla stessa lunghezza d’onda: mi sono bastate poche battute per capire ruolo, necessità e finalità della sua opera. Lo stesso non è accaduto agli altri partecipanti alla discussione, ed in particolare a due giovani imprenditori a capo di aziende famigliari; questi ultimi manifestavano significative difficoltà di comprensione, non riuscendo a cogliere quello che per me era di tutta evidenza. A trasparire dalle loro parole era l’idea che, tutto sommato, si trattasse di una figura non necessaria, superflua, ed, in definitiva, di uno spreco di soldi.
Salto indietro nel tempo, breve, di qualche settimana, quando per curiosità ho partecipato ad un convegno organizzato da Confcommercio per imprenditori di pmi ai quali venivano descritte le nuove soluzioni in campo di marketing. I relatori, tutti apparentemente preparatissimi, sparavano slides davvero accattivanti, piene di termini inglesi, e a dire il vero pure la descrizione orale sovrabbondava di inglesismi. Decine di dati statistici, tante case-history anche molto interessanti, ma allo stesso tempo lontane anni luce dalla realtà della platea costituita da titolari di pmi, molti dei quali padri e padroni da decine di anni dell’azienda di famiglia che però, di questi tempi, viste le necessità e le paure, vengono ad ascoltare un po’ tutti nella speranza di trovare qualche soluzione.
Ero in prima fila e da dietro sentivo i mugugni soffocati, i commenti sarcastici al cambio di relatore e, girandomi ogni tanto, vedevo anche le espressioni stanche e le posizioni assunte sulle seggiole che lasciavano intendere una certa smania per la fine dell’evento.
Indipendentemente dall’inglese – se avessero usato l’italiano sarebbe stato lo stesso – dal pulpito sembrava si propagasse una lingua incomprensibile per la platea e, quando questa domandava qualcosa, sembrava parlasse – sempre in italiano e con relatori italiani – un’altra lingua, a questi ultimi sconosciuta. Incomprensione quasi totale nella sostanza e, trattandosi di un convegno-workshop, la trasversalità degli argomenti, con la dose di superficialità che ne consegue, rendeva difficile per ognuno degli intervenuti calare nella propria realtà quel che vedevano e sentivano.
Sapete chi ha avuto più successo tra i relatori? Quello che, oltre alle doti oratorie (erano tutti titolari o porta-voci di aziende di servizi per aziende e quindi, in realtà, stavano promuovendo la necessità di dotarsi dei loro servizi, e aggiungo che avevano ragione senza entrare nel merito dei “prodotti”), aveva anche la capacità di essere un buon venditore. Quest’ultimo è stato l’unico ad essere stato accerchiato alla fine dell’incontro, ma non perché ciò che aveva proposto fosse davvero utile o necessario, anzi, ma perché era stato convincente.Situazione – quella che ho appena descritto – frequentissima negli innumerevoli workshop per farmacisti.
Torniamo al mio amico “Pesce” e al suo lavoro.
Con l’avvertenza per il lettore che inserirò tra parentesi la figura corrispondente nel contesto nella farmacia.
In una produzione teatrale ci sono, da una lato, il regista e lo scenografo (titolare) che rappresentano, insieme agli attori (collaboratori), la componente artistica: tutti questi soggetti, pur disponendo, in ragione dell’esperienza acquisita, di qualche nozione tecnica, non conoscono effettivamente “il suono” e ciò che lo rende perfetto durante uno spettacolo (strumenti quali robot, fidelity card, monitor, elimina code), vogliono solo che sia perfetto; dall’altro lato troviamo i tecnici (tecnici softwarehouse, venditori di servizi, ecc) i quali, sempre grazie all’apprendimento sul campo, possono aver accumulato un bagaglio in materia artistica e magari imparato a soddisfare qualche necessità, diciamo, letteraria (prodotti di farmaco e parafarmaco, vendita a banco, gestione clientela), ma che sono formati ed abili ad usare cacciavite, pinze e software.
Gli uni e gli altri parlano due lingue diverse, magari i primi ce li immaginiamo con pashmina color pastello attorno al collo che scende sul petto e occhiali con montatura tondeggiante e marcata, mentre i secondi in tuta da lavoro con guanti e scarpe anti-infortunistiche, coperti qua e là di polvere e macchie.
E il mio amico Pesce? Ecco, lui è il consulente, l’interprete, quello che deve conoscere sia le necessità che il lavoro degli uni e degli altri. E, si badi bene, il suo compito non si limita al momento della traduzione.
Guardando le cose da una prospettiva ravvicinata si nota subito come risulti riduttivo considerare il consulente come un mero anello di congiunzione tra due poli di un sistema; di quest’ultimo, invece, rappresenta l’ingranaggio in più, quello che dovrebbe far raggiungere un maggiore rendimento al sistema costituito dalle due ruote alle quali ingranarlo. Senza di lui le due ruote girano lo stesso, ovviamente, mosse dal fine (il reddito d’impresa e la paga) da raggiungere comunque sia, ma producono spesso una resa migliorabile.
E in farmacia?
Ecco, il consulente non deve avere cognizione dei principi attivi, delle molecole, della posologia che caratterizzano un farmaco o dei benefici di una crema anti-age – come il mio amico Pesce non deve avere a mente tutte le opere letterarie che vengono messe in scena – ma allo stesso tempo deve conoscere la farmacia, il mondo farmacia, la gestione della clientela come nessun altro. Il suo primo scopo deve essere quello di portare i farmacisti oltre il banco, in un mondo che, nonostante le loro fuorvianti sensazioni e convinzioni, gli è di fatto sconosciuto.
Solo così, infatti, può efficacemente assolvere al compito che è chiamato a svolgere: consigliare (e condividere con) il titolare su quali strumenti, novità, marchingegni adottare e ciò di cui, invece, fare a meno, indicare la strada da percorrere, controllare la percentuale del monte sconti da un punto di vista qualitativo, tarare, ove esistente, il sistema premiante affinché funzioni, verificare la produttività dei collaboratori dopo averli messi nei ruoli a loro più congeniali e più redditizi per l’azienda. E poi, dopo averli ascoltati con attenzione, tradurre le parole dei venditori che cercano di piazzare i loro miracolosi servizi, ma soprattutto verificare la necessità di adottarli e prima ancora la possibilità di essere utilizzati da tutto il team, tenendo la farmacia lontano dalle mode del momento.
Insomma, approfondire e saper leggere i numeri, da un punto di vista qualitativo, senso critico alla mano e, scendendo su di un piano concreto, inventare azioni ad hoc per risolvere le necessità della singola farmacia, offrendo così risposte a quelle domande che tutti i titolari si pongono alla fine di ogni meraviglioso corso a cui prendono parte: «e domani come metto in pratica nella mia farmacia quello che ho appreso? Come faccio a trasmettere tutto ciò ai miei collaboratori? Come posso attirare più donne con figli piccoli? Aumentare la spesa dei miei clienti piuttosto che cercarne di nuovi? Ecc. ecc. »
Quando andavo in affiancamento vendita con i tecnici nelle farmacie che seguivano, e ancor prima, quando mi recavo da solo in farmacia a vendere sistemi loyalty, mi è capitato assai spesso di riuscire a vendere qualcosa a chi proprio non serviva, operando da venditore – esattamente come quello descritto prima – e non da consulente (purtroppo ai venditori oggi insegnano a presentarsi come consulenti, come se essere venditore sia squalificante!!). Ma vendevo e dovevo fatturare per me, e soprattutto per l’azienda mandante cui – e non potrebbe essere altrimenti – interessava poco chi avesse firmato il contratto.
Ecco ben delineata la fondamentale differenza tra un venditore ed un consulente, a patto che il consulente non abbia rapporti commerciali interessati, cioè, per dirla col politichese, non abbia un conflitto di interessi; e nel caso vi fosse, sarebbe almeno preferibile che fosse palese, non occultato. In caso contrario, il rischio concretissimo è quello di trovarsi ad avere come partner non un consulente, ma un nemico.
Un consulente deve far risparmiare ottimizzando e migliorando, e facendo adottare gli strumenti non solo per la loro astratta efficacia, ma soltanto se la farmacia presenta una struttura concretamente idonea a farli funzionare e, ancor prima, se è preparata a promuovere nuove iniziative.
Il titolare deve gestire la sua azienda e curarsi dei suoi collaboratori e clienti, cioè deve svolgere “semplicemente” il lavoro definito dall’art 21 del codice deontologico, che lo chiama ad essere imprenditore e farmacista, in maniera imprescindibile, diciamo metà e metà; non solo farmacista, come è accaduto prima del 2007, non solo imprenditore, come è avvenuto da quel momento in poi (se posso permettermi suggerirei 51% farmacista e 49% imprenditore). Cito a tal proposito il dott. Falorni, noto commercialista del settore: «La farmacia è una azienda elementare che è gestibile con professionalità e buonsenso. Pochi indicatori e imprenditorialità per gestire, monitorare e rendere competitiva l’azienda».
Il Consulente, con la C maiuscola, per dirla con le parole spese del dott. Toschi durante l’ultima edizione di Farmadays, «deve stare ad ascoltare, è nelle mani del cliente (il titolare), quando arriva non sa nulla della specifica realtà, deve aiutare a formulare i problemi in maniera maieutica» e non propinare dogmi e regole trasversali come se valessero in tutte e 18.000 le farmacie.
Se c’è una cosa che ho imparato subito entrando in farmacia per lavoro, nel lontano 28 febbraio 2007, a Messina, a dispetto di ciò che mi raccontavano, cioè che vista una farmacia le hai viste tutte, è che invece non ne esiste una uguale all’altra; del resto questo è scontato poiché le aziende son fatte di persone, e le persone, fortunatamente, son tutte diverse.
Damiano Marinelli